Psicologia in positivo

Ravvedo il lavoro psicologico anzitutto come opportunità per favorire una maggiore realizzazione personale per chi lo compie, e non tanto per contrastare – come prevalentemente si ritiene – problematiche quali: nevrosi, stati d’ansia, disturbi di personalità, somatizzazioni o altro. E a realizzare questo lavoro è anzitutto il soggetto che ravveda l’urgenza e l’opportunità di modificare qualcosa di sé e della propria vita, con anche il terapeuta a cui si affida per il percorso da compiere.

Terapia è, etimologicamente, trattare_trattamento, ovvero, trarre_tirare fuori, e, con Cesare Padovani, “valorizzare, far emergere le migliori potenzialità di una persona” (*), e psicoterapia, in quanto trattamento psicologico, va nel senso di trarre_e_far emergere le risorse psicologiche.

Chi interpella lo psicologo è pur vero che lo fa sotto la spinta di un problema che avverte impellente, ed è di questo che parla, questo pone all’attenzione, per questo chiede una risposta. Alla centralità che l’utente affida alla problematica avvertita, il terapeuta può verificare l’esistenza di una centralità altra che potrebbe essere già subito la motivazione dell’utente a manifestare la richiesta di aiuto. È quindi verso una riformulazione della domanda del soggetto che il terapeuta orienta anzitutto il suo intervento, che giunga ad includere, affianco alla manifestazione del bisogno avvertito la consapevolezza di stare a compiere un passo in funzione di una sua risoluzione.

Ecco che, a fronte delle connotazioni negative tipiche di ogni problematica,
la “psicologia positiva”, favorisce una relazione terapeutica in grado di trarre dall’esperienza del soggetto gli elementi positivi per guardare con una essenziale fiducia la propria vita.

È una ridotta fiducia in se stessi a connotare alla base ogni problematica psicologica, e, se pur per gradi diversi per ogni caso e situazione, un sentirsi, scoperti, privi di difese, impotenti, con paura di non riuscire a far fronte ad essa che giunge ad apparire come ineluttabile, al pari di una presenza totemica, animata di vita propria, indotta da forze oscure e misteriose. “L’insonnia non mi fa dormire”, “l’ansia mi mette agitazione”, “la depressione non mi fa più uscire da casa”, “una fame tremenda mi induce a mangiare continuamente”, sono espressioni in cui la persona scompare come soggetto e la funzione agente viene assunta dallo stesso problema avvertito. Ma tale è l’esito, giacché lo spodestamento di soggettività avrà sempre alle spalle origine e radicamento da tempi e circostanze non sospetti.

È plausibile l’intento di individuare il filo di percorso che conduca ad una possibile origine del problema, per provare a modificarne l’orientamento, sperando in tal modo di influire sull’esito. È una strada da tenere sempre presente questa del principio di causalità, ma avendo ben chiaro che non vi è un automatismo fra averla individuata, eventualmente, e una trasformazione che si spera possa derivarne. Una madre possessiva, un padre assente, un trauma di qualche tipo, lutto, malattia, abbandono, violenza e/o abuso subiti, carenza di cure o ipercura, una gelosia fraterna, colto uno o l’altro o associati fra loro questi – o altri ancora – come possibili elementi causali dell’evidenza problematica, si dispone in tal modo di una polarità significativa nell’impianto di personalità del soggetto. Di fatto una bella opportunità, un importante traguardo! ma che farsene, come agire un tale elemento ravvisato? Trattamento è traghettamento o tessitura di percorsi fra la trama di un procedere da qui ad allora e da allora a qui, e l’ordito della relazione interpersonale fra soggetto paziente e terapeuta. E in questa non assume affatto centralità la causa colta prima come difficoltà originaria ma piuttosto al centro vi si può ravvedere l’intreccio complessivo di percorsi e il tessuto che come insieme ne deriva. Ciò significa che la polarità causa prima estrinsecherà il suo potenziale dinamico a condizione che vi corrisponda una altrettanto significativa polarità data dalla relazione soggetto_paziente e terapeuta. Il che è dire che la causa prima, o quello detto principio di causalità, di per sé a poco serve se non sorretto dal principio di responsabilità nella relazione, da quanto si è in grado di guardarsi in viso, d’incontrarsi, di dirsi e ascoltarsi nel contesto della relazione terapeutica. Siamo quindi fuori dal considerare l’originaria causa prima – colta ovviamente in negativo per il male_o_dolore arrecato e ancora attualmente avvertito nelle conseguenze, per considerare in positivo quanto qui e ora si riesca a realizzare nell’incontro in atto.

Può essere il soggetto spontaneamente a riferirsi ad una possibile causa prima del problema avvertito, ma può essere il terapeuta a indurne il riferimento, allorquando ravveda necessario introdurre una diversa polarità discorsiva per valicare un qualche stallo narrativo.

G. si sente soggiogata da relazioni invasive a cui non riesce a sottrarsi, con gravi ripercussioni sul suo cuore e la sua salute complessiva. Era successo in passato, ma ora nuovamente, con una parente carica di vissuti angoscianti che glieli riversa addosso. G. a più riprese e in vari modi ha cercato di sottrarsi, ma senza riuscirci: con vari pretesti la parente si reinsedia nella sua vita e torna a coinvolgerla. Ora sembra riuscita a troncare in maniera decisa. Ma la parente è ricorsa telefonando alla figlia di G. perché convinca la madre a farle riprendere i contatti. Per tutta risposta G. alla figlia avrebbe detto: “Dille di stare dove sta!” E aggiunge che è propria intenzione precisare ulteriormente alla figlia di riferirle, nel caso la richiami, del suo deciso intento di non volerla né vedere né sentire più.
Due le questioni aperte: 1) molto strano che G. alla figlia non abbia fin da subito precisato il dettaglio di non voler decisamente incontrare la parente, accontentandosi di un generico avviamento espressivo ma non del suo naturale completamento in termini di maggiore chiarezza per quanto intimamente avvertito; 2) potrebbe capitare che G. incontri la parente per strada o in qualche altro luogo, e quindi, altro che la figlia!, dovrebbe essere lei stessa a esprimere il suo intento nei suoi confronti.
L’intreccio fra questi due aspetti critici avvinghiano la trama discorsiva basata essenzialmente fino ad ora sui comportamenti invasivi della parente per offrire consistenza alla scarsa attitudine di G. a manifestare ciò che intimamente percepisce, perfino nei confronti della figlia!  (in stesura)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Fornisci il tuo contributo!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.