Luciano Provenzano – poesie
Abbiamo tutti una poesia nel cuore a cui offrire le ali e farla volare, giacché liberare poesia è spazio che si rinnova in sé stessi per altra poesia che può germogliare; e se la poesia nel cuore non si libera marcisce e soffoca la vita, può creare disagio, instabilità, conflitti, far ammalare.
Poesia è il respiro stesso, l’emozione coniugata al pensiero e trasformata in parola che giunge alle labbra.
parola silenzio
da interiore sentire al sentire del mondo
fra terra e cielo
su ali di parole al vento
possibile spiraglio fra
quel che in sé tace e quel che di sé esce
vortice di senso per ogni possibil dire
accende mari attraversa venti illumina risorse
gesto fra quelli inauditi che cuori affondano
e bloccano dire e aliti e sguardi e tutto tace
e noi con essi da cavità remote
da silenzi coperti fra vociare dissennato
in cerca di una almeno capace di resistere
ed altre ne macini domani
pane per un sentire nuovo
di tenerezza ad incontro aperta.
Slanci
a Federico
Sentire d’impervi sentieri
e d’ala pronta a solcarli
spiegato interiore volano
fra volti aperti a nuovo
Da oggi a domani sempre più questi tuoi
mentre da ieri ad oggi un po’ più questi miei
Ed è ruota a fondare
nuovo sguardo sul mondo
vita rinata.
IL MARE CON UN DITO
Occasione oltreoceano
a portata di mano
lì per lì giungere e
nuovamente nel vento
Onda che va e ritorna
nuova che lacrima gonfia
– limpido sguardo sulle cose –
di fatti volti e circostanze
in fondo al giorno
Mare d’attimi
d’infinito
colori a colori
nell’immenso insieme
Sembianza nello scorrere
diventata altra
originario impulso nel fondo
che rinnova
Dito a lambirlo
il riflesso di parola
sfiorarlo o tuffarsi in esso
è dire del cielo
toccato con un dito.
R I S V E G L I
Porgi pane di fra nuvole nel sole
nell’oasi d’ un fiore di fra il verde
i muggiti di uragano fra sguardi
Corrono di fra vento i giorni
a raccogliere briciole di fra sassi
scomporre il tempo di fra ram
di fra labbra a ricercare bacio
Velieri naviganti di fra pensieri
di fra dita impetuose onde
dire e ridire è rinnovare giorno
nel poliedrico la ragione al vivere
Riprendere a sognare di fra braccia
da giorno a giorno l’immediato attingere
piccolo ed insignificante ardore
dall’ovvio e risaputo il nuovo palpito
Musica, danza, pennelli e sguardo inerme
lacero il volto e di fra i piedi sangue
giunge grato l’attimo e la spinta
a ricercare nuova frontiera ancora
Era nell’aria, non pervenuto al tatto
di fra i capelli, non ancora al suolo
da rude linguaggio ed essenziale
l’onda variegata al campo arato
Sfugge la piega d’accomodamento
ridimensiona ogni bagliore e luce
trae pure in vertigine sua pausa
distende suo raggio nell’imprevedibile
Risvegliarsi attualmente al canto
ogni contatto agile e proficuo
frizzi ridesti d’aria fra narici
eccomi a prendere il bimbo
nuovamente in braccio.
Cos’è poesia
è dire del presente
all’infinito
di luce che si spande
in occhio
di un suono che balena
fra le mani
di un gesto che si tocca
con la lingua
di un sentire andare
fra le righe
di un tutto volto in niente
in un istante
rapina al cuore di sentiti
e battiti elargire a piene mani
in un punto l’universo intero
tutta una vita in una sola ruga
in uno sguardo tutta la visione
in cerca di un incontro
fra contrari
da considerare ogni ferita aperta
giunge da dentro un senso
di pienezza
ogni incompletezza volge a chiusa
respiri uno ad uno inanellati
parole
a ravvivare immobili giacenze
quel tutto e più che si può
dire
qui è raccolto nell’essenziale
fare
senso d’essere nel mondo
è rivoltare
situazioni da stantie a nuove
rivolta coglie il verso in fondo
che trasforma il dato
in ricevuto.
Di viaggi e dove
Quando cala di fra le dita
questa voglia di muovere
la traccia di su e giù
e in lungo e in largo
guardo a vedere dove affiora il senso
se da un remoto angolo di andato
mondo in là da ieri e oltre
o dal venire attuale di
storie attive
nell’ordinarietà dell’oggi
o dallo sguardo in avanti
atteso a vederti
nell’incedere di un arrivo improvviso
Vedo la punta cogliere
il segno di confluenza
di ogni dove e quando
e scioglie il grumo di
moti informi
flussi vaganti a mezz’aria
ricollocando
nell’interiore radice il punto da cui
il volo si diparte
E giunge
a dire di te
oltre frontiere e mari,
del tuo cuore ritrovato
fra le tue stesse mani.
Estate
Riscatto di un attimo
impresso dalla punta sul foglio
Stop
Per mari e monti
l’incontro
cercato e atteso
Entra nello sguardo e vola
sulla diagonale del volto
verso la mano tesa
Ho bisogno, ho bisogno di te
Rimedia una carezza
incontro al fiore di ritorno,
il profumo antico
nella stagione di sole
Ti senti com’eri
e c’è da crescere ancora
Ma dove il coraggio e l’energia?
Tutto raggiungere con un fiato
in gola
Nella remissione serale l’onda placata
e il filo di vento ritratteggia
i contorni:
le cose di sempre in una luce nuova.
Il mare con un dito
a Martin Andrade e Susana Degoy
Occasione oltreoceano,
a portata di mano
lì per giungere
e nuovamente nel vento,
onda che va e ritorna,
nuova che lacrima gonfia
limpido sguardo sulle cose
di fatti, volti, circostanze
in fondo al giorno
Mare d’attimi
d’infinito tempo
colori a colori
nell’immenso insieme
Sembianza nello scorrere
diventata altra
originario impulso
nel fondo
che rinnova
Eco a lambirlo
il riflesso di parola
sfiorarlo o tuffarsi in esso
è dire del cielo
toccato con un dito.
Condensazione
Guizzo dell’anima
fovilla
gemito del desiderio
del canto germoglio
Alla foglia la stilla
richiamo;
calia di linfa prodigiosa
Pretta scaturigine
da cui
limpida
l’acqua
l’ondulo
tratturo
del verso
disseta
La pietra schiusa
del destriero il corso
attinto.
Il suono di un contatto
la posata mano
al caldo seno
Ogni paura
smessa.
GIOIELLO DEL LOTO
Il brillio rifratto
nell’occhio profondo
come un
alveare
smisurato
dove s’inabissano
scrupolosamente a
ogni sguardo i
lembi di un
perimetro raccolto
che chiamiamo
immagine
visione
veduta o
carezza
Racchiude essa
la perla desiderata
la piuma immacolata
l’oasi creativa
il mare irrefrenabile
La pazienza posata su un tappeto affianco a
un flauto.
L’abisso in un sasso
in uno sguardo
ogni altro
raccogliere
In una sfera ogni moto fondere
ogni parola
generosa e viva
da qui in oltre
infinito è finitudine
filosofia gioca a poesia:
dalla ragione al cuore
da cammino a pausa
da certezza a dubbio
da sguardo a incontro
In un frangente
audacia e forza nel semplice respiro
ed un mondo nuovo si diparte
Cosa nella sera buia?
angolo di camino
o fango nella strada scivolosa
Spada che a mille trafigge ogni vissuto
ed ogni frammento serba opportunità
quella spada ha radice nel mio cuore
ne curo pure germogli e fioritura
Riconoscenza
a Vittorino Curci
Quando nulla di niente più sarà da dire
e di ogni cosa ancora tutto
a dirsi
L’oceano cercherà la goccia
il seme il frutto
la campana il suono
la giostra i bimbi
Di ogni cosa il contrario
sarà solo il complemento per soddisfare
la ricchezza nelle mani,
e diventeranno grandi queste
per reggere e contenere il mondo
Quando non ci affliggerà il tuono ed
ogni cosa inavvertitamente andrà
a collocarsi nel suo
alveo
C’è da sperare che il Polo
Nord non mangi il Sud
o viceversa
ma lambendosi diranno:
sono più ricco,
sei la mia possibilità;
da solo,
da solo
sarei proprio impossibile.
La mia ferita
Ama la tua ferita, figlia
amala ch’è parte di te
tu sei quella ferita
quella ferita sei tu
Io sono la mia ferita
io ferito sono io
senza la mia ferita non sarei io
La mia ferita mi dice che mi lascio dietro
qualcosa che non sono più
Non sono più quel bambino
non sono più quell’integra realtà che ero un tempo
unito tutt’uno alla vita
Me ne sono staccato per crearne altra
e quel passaggio è quella ferita
Quando da uno stato realizzato,
pieno, gaudioso, che sembra
non finire mai, che durerà
tutta la vita, che la vita è quella:
spensieratezza senza fine e
aumenterà e potrà solo migliorare,
crescere e durare per sempre
E invece in un attimo, un frangente,
allo svoltare d’angolo, ad una notizia che giunge
la sicurezza che era
crolla improvvisa e mi lascia esterrefatto
e trasforma ogni cosa,
ed anche la luna che ieri era grande di luce intensa
questa sera scompare nella tristezza
Sii la tua ferita, figlio
che è il modo unico ed altri non ve ne sono
per crescere
e poter toccare il cielo
Balbettio
Chi riprende ella notte cammino a segnare col passo il giorno che viene?
Apre ali, dice di tempi, racconta stagioni
e tutto in quell’unico dire strappato al vortice che ingoia ogni tempo e gesto.
Fermarsi e ripartire in uno e ripartire e fermarsi quello ancora in confusione fra andare e tornare.
Tutto volge in un unico dire ogni cosa:
non sfugge, sfuggo, cerco solo cosa possa determinare esplosione.
Potrei dire e ragionare con calma, essere esperto:
poche forbite parole a velar l’indicibile.
Da quel punto si dipana la traccia, il filo che va e sorprende,
diventa presenza, esce dalle righe e rientra,
perfora i cieli e s’inchioda per terra,
dice e tace, esce ed entra,
come per mare così per deserti muore e vive e vive e muore.
Dove altro cercare limite e infinito, riuscire a dire e poter tacere?
Qui adesso, tu, noi
Passaggio
notte al giorno
come parola al silenzio
gocce di sentito intorno
quel che si poteva dire e non si è detto
livello dell’impatto, guardo quanto in qua
e imbacuccarlo in dentro che non si dica e non si sappia.
E se poi nasce?
e se dice e si sa, e si vede anche?
liberare il volo ad ogni cenno
di quel che dentro provo,
questa trasformazione da mille mondi
ad uno
tanti possibili
e questo che ora
mi vergogno a dire
ma semplicemente questo
tanto poco
appena percettibile
e non di più
e questo è tutto.
poesia ritorna
frantumi fra solchi
qui e là muffe
montagne addosso a finestre
intendere di cosa
contrazioni e capovolgimenti improvvisi
detto l’ultimo – mi spaventa – bollettino:
di notte a piedi per la città desolata
e tutti rintanati in baule di plastica desiderosi di smetterla
ma come da dove in che modo quando e soprattutto
perché?
Uno che sia, intuire quell’uno
origine di quel che si vorrebbe
diciamolo
cambiamento
poi invocato e richiamato
e che è qui ad ogni passo e frangente
volere cosa che già c’è e non arriva
giacché c’è
volere cosa che non si sa se sia quella che si vorrà
volere cosa che si sa ormai di non volere più
smarriti insonni desideri
invernali bruciate delizie
è la fine di quel che più non può
che essere dismesso:
della diversità e dintorni
non più quel che di ieri
né di quel che domani per l’altro e l’altro ancora
come rivoli i frantumi che scorrono
non questa ancora l’ultima
prima del sole a mezzanotte
e struggersi nella favola che giunge a destino
per incontrare due occhi fra mille
e dire che tu?
No
Io ci sono,
Bastardo!
generar poesia
Si scrive e si legge
o la si genera e germoglia?
Si alza e va per strada a mostrarsi
o nel letto abbraccia e seduce?
La guardo ed è immensa,
chiudo gli occhi ed è appena un punto di luce nel buio.
Cerca consenso e applausi
o quiete e distanza da ogni clamore?
Dice del suo fascino
o delle ferite del mondo e dell’anima?
È rintanata fra le righe
o l’urlo raccoglie d’ingiustizia patita?
È limpida e spaziosa
o tetra e racchiusa in sé?
Gira su se stessa e torna alla base
o alata va a sorprendere il sole?
Apre al desiderio
o declina in tristezza?
La colgo e sa di sale
e mi tormenta nel parto
E mentre dico di lei, lei già dice d’altro
Spunta sull’alba e a sera è ancora in giro
È già sfuggita mentre qui la dico
Ma questa è lei: applauso a riscoprirla.
Parole
parole, erotico svelare
o avvolgimento in esse per non far vedere
Dire d’amare in parole
o fare la guerra e offendere con esse
Parole, elargizione tenera
quello che so e dico
offerta di esperienza e storia
Parole per far sapere di sapere
come dominio e potere
Ritorno
All’amico Michele Frascaro, in memoria, 22-3-‘10
Con la mano sulla spalla di tuo padre
percepisco il tuo sentire con il suo
Quanto l’ombra che rimane
o la luce dilatata oltre il confine
in quel punto non si sa più che cosa sia
Ritorno tratteggiato fra gli sguardi
quasi possa dirsi che
nel viaggio ormai ci siamo tutti:
chi affacciato
chi sceso per intervallo breve
chi di ritorno trova che riprende il viaggio
e questo è quanto
torna ora rinnovato fra le dita:
la congiunzione fra quel che sei ed eri
attuale presenza che ancora vive
e resta
Angelica
ad Angelica Pirtoli, in memoria
Cerchiamo parole
parole per dirlo,
per morire e risorgere
parole vuote da riempire, fra dialoghi ormai sfatti;
chi cerca trova
in un pozzo…. le ossa
Angelica, un alito
su labbra spente
Chi ha parole da spendere?
a chi esternare l’orrore?
C’è tempo fra la tua corsa a cavallo
e il prossimo incubo stasera?
Angelica ormai alle spalle;
chi la ricorda?
Ne vale la pena parlare
Ormai assuefatti, si scantona,
e per l’ultimo acquisto la fretta di sempre
Angelica vola
su labbra sbiadite,
pronunciarla neppure sanno
orgogliosi che sia civiltà, del cazzo proprio
sputato negli occhi, esibito in vetrina
Angelica muore
Infami, vermi
più dignitosi anche i cani.
Ma se hanno potuto arrivare a tanto
nessuno può dirsi più estraneo
Infighettati per la sera, una sera malvagia
intanto che una bambina muore
fra braccia di passanti che non la reggono
e l’hanno buttata lontano
e con essa la parte più bella di umanità
Solo chieder perdono, potendo
a ritessere ali ad Angelica
e farla restare fra noi.
Il mio giardino
Il mio giardino è il cuore che batte il ritmo delle stagioni della vita
Il mio giardino la campagna che s’ apre a mezzogiorno inondata di frutti e
al mattino con le erbe fresche palpitanti di rugiada
Il mio giardino l’infanzia e quella terra accanto alla casa colma di fiori a
maggio, luglio, settembre, gennaio
Il mio giardino il tuo pube che s’ innalza fra fuochi
della notte a cantare l’ osanna alla luna e alle stelle
Il mio giardino la parola che cresce coltivata nel sogno
dell’ inverosimile ordinato dal respiro che lo agita e lo diffonde nel vento della sera
Natale
Fra sogni e attese,
sospeso il cuore.
Cosa cercare,
di cosa bisogno ancora?
Ruggisce l’intimo
brama sentirsi e sentire,
vedere e percepire
essere e dire d’esserci
Ma cosa in fondo,
quale la voglia
e il subitaneo impulso?
Ritrovare e ritrovarsi,
riconoscersi,
sentire di te,
il ritmo del tuo andare
Questo cerco
questo poterti dare:
uno sguardo
che ci scopre insieme
Ed un altro viaggio ancora
e nuovamente una stella fra le mani.
Terre di colore
a Cesare Piscopo
Quando ti tuffi nel mare dei tuoi quadri
trai colori dal fondo a piene mani
e l’azzurro del mattino si affastella
col vermiglio inabissato del tramonto
L’argine di scogliera non trattiene
energia in vortice
che spruzza
un riflesso argenteo nell’occhio
Sulle spalle del Ciolo è addensata
la vastità di ogni possibile oltre
ma solo alzarsi al cielo giunge
ad aprire luce
Visioni in vetrina trasposte
nel fiondare del parto sulla tela
ardimento di un accumulo che
apre
sentieri nuovi nel sentire e dare.
Comprensione
a Gigi Scorrano
Mentre punti verso il cielo
il dito;
fai sapere che nulla intanto indichi
guardo e dico del senso profondo
d’indirizzo;
rispondi che è solo la distanza
che tu valuti
dico ch’è coperta dal soffio
del respiro;
mi dici d’esservi
come di burrone in mezzo
ti dico che con ali
lo si attraversa;
manifesti intento taciturno
sorridi del velo mosso
che adisce trasparenza
imprimi quel ruotare di parola
a illuminare il segno
cos’altro del resto quei cesti
di perle che vai a scrutare
a collocare insieme o a distinguerle?
su parola la casa
gli anni
le premure,
amicizie
l’onda di vigore
il moto ondoso di uno sguardo
fra dedizione umiltà e inconsistenza
inconsistenza propria di parola
umiltà di cuore nobile ed amico
e quella volontà
di seminare nel mare
un grido
che con Giona riportato a riva
giunge a dire
«Quanto perduto tutto
tutto è stato ritrovato!»
OLTREPAURA
Ebbene, lo ammetto
a volte ho paura
ho paura anzitutto a dire di aver paura
ho paura di non sapere tutto ciò che dovrei sapere
di non ricordare ciò che dovrei
dovrei dovrei
paura paura
bauh bauh
le paure del domani
la paura di non riuscire
la paura di non
non non
tanti tanti non
paura di baciarti? questa non più;
familiarizziamo ormai da una vita e i baci
sono diamanti lucenti fra noi
che rischiarano
ogni timore d’ombra
ogni notte di paura
e ad ogni segnale incerto
offrono rinnovato impulso
per varcare il limite del freno di paura
e spiccare un volo di contatto ancora:
sei Tu in piena.
QUISTU È LU TIEMPU
A Rocco Coronese in memoria
Ulia cu torna ’torna
lu tiempu te lulia
ca cate a terra e la raccoj
una a una;
lu tiempu ca ne cuntentanne te nenzi:
cinque patruddï, petre pe sciucare,
pane e cummitoru
e spruscini la sira
pe mangiare;
lu tiempu senza fine
te na sciurnata cadda,
te na sira a nanzi u focalire,
te na matina alla scola, ca nu spiccia mai;
lu tiempu te tanti e tanti ca te passane te nanzi e
li cuardi e li nomini unu a unu,
uci e facce ca te cuntane cora,
ca finché si vivu
vivene cu tie e
camperanno sempre intra lu core.
Quistu è lu tiempu ca
mai nu more,
e lu core ca se apre cu
raccoje
storie te mundu
ca cangia ogni momentu,
ma ca ulia cu torna sempre lu
stessu a dü momentu
quando te curgisti ca puru tie
poti lassa nu segnu
su sta via
cave rivare a celu,
ci ole Diu.
È QUESTO IL TEMPO
Vorrei tornasse ancora
il tempo delle olive
raccolte
una ad una da terra
il tempo che ci accontentavamo di niente
cinque patruddï, piccole pietre per giocare
pane e pomodoro
e verdura selvatica la sera
per mangiare
il tempo interminabile
di una giornata calda,
di una sera presso il caminetto
della mattina a scuola che non finiva mai
il tempo nel quale tanti e tanti ti passano davanti
e li guardi e li nomini uno ad uno,
voci e volti che parlano ancora
che finché sei vivo
vivono con te e
vivranno sempre nel tuo cuore
Questo è il tempo che
mai muore,
e il cuore che si apre a
raccogliere
storie di mondo
che cambia ogni momento,
ma che vorrei tornasse sempre lo
stesso a quel momento
quando ti accorgesti che anche tu
puoi lasciare un segno
su questa via
che arriverà al cielo,
a Dio piacendo.
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