dire o non…

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di luce

 

Come dire ciò di cui non si può dire? È urgente il dire e lo è altrettanto il non poter dire. Storie di dolore che coinvolgono profondamente; storie soffocate per pudore, per paura; di cui dire, si ritiene, ne amplificherebbe l’entità, mentre nell’occultarle, è ritenuto, le si preservi da orecchi e occhi indiscreti. E chiedo: è  l’irrigidirsi in una  chiusura che consegue il problema avvertito o potrebbe darsi piuttosto che quell’irrigidirsi costituisca la modalità di funzione che determina il problema?

È saggia tendenza esternare, pur con dovuta delicatezza, quanto si vive come difficoltà di vita o di salute; ma tanto permane ancora  d’intimistica ritrosia in merito. Dipende evidentemente dai contesti relazionali in cui ci si ritrova, che possono essere sensibili e accoglienti o chiusi e refrattari. Ma, in corrispondenza, è da vedere quanto fra sensibile_e_accogliente o chiuso_e_refrattario il soggetto scelga di essere, ben oltre la caratteristica del contesto in cui ci si ritrova. Se si ritiene chiuso_e_refrattario il contesto, e ad esso ci si adegua, cosa ne sarà di sé? Si potrà mai ritenere se stessi sensibili_accoglienti_ed_espressivi in un contesto chiuso_e_refrattario?  Quanto si possa essere soggetti_vivi_e_attivi nel contesto in cui si vive? Un contesto è chiuso_e_refrattario  per responsabilità di ognuno che lo compone; ed è anche grazie ad ognuno se esso sarà aperto_ed_accogliente. Evidentemente, quanto qui  detto va riferito a contesti familiari_ sociali circoscritti o comunque prossimi, mentre potrebbe non valere del tutto sulla dimensione mass-mediale. Ma è pur vero che l’agire favorevolmente in questa è reso possibile da quanto e come si sia in grado di destreggiarsi in quegli altri, per cui se si è chiusi_e_refrattari sul sentire familiare_sociale circoscritto ben difficilmente si sarà artefici d’aperture creative sul piano mass-mediale, nel mentre queste saranno ben favorite da disponibili aperture già sperimentate sul piano dei rapporti familiari_sociali prossimi.

 Va considerata al pari di un’azione protezionistica quella di bloccare un dire che affiora nel pensiero,  che energie, quante!, a seconda delle circostanze, comunque implica, e che pertanto non è da ritenere affatto innocua. Evidentemente il prezzo va confrontato con quello che può implicare un dire eventualmente inappropriato, in ragione della circostanza. Ma non di singola circostanza qui si tratta, bensì di quella paura sovrastante che si connoti come atteggiamento di carattere tendente con frequenza a bloccare il dire, con conseguente contrazione del respiro e rischio di ristagno del pensiero. E contrai oggi e domani e l’altro ancora, quali ricadute sul proprio equilibrio e sulle relazioni interpersonali?

Sentito invito, quindi , a non soffocare  parole che germogliano in bocca, a trovare modo per dire_svelare_pronunciare. Tendenzialmente: saper_poter dire. Che talvolta o spesso tante sono di troppo;  alcune sgarbate;  non tutte vere fino in fondo; tante rabbiose;  tante troppo intime per poter essere comprese fuori dal cuore che le genera. Vagliate e rese per lo spunto di pensamento che ogni parola ha in sé insito, ed è questo che NON va bloccato, a cui va dato svelamento, pur nonostante tanti, ma quanti!, i pensieri svergognati o addirittura carcami che a dirli il mondo non è più. Ma vi è all’origine l’animo che li genera, l’esperienza che li forgia, lo spirito che li nutre e li fa affiorare. Dire, al contempo, anche di pensieri e parole di bontà, luci sul cammino dell’uomo. Ma tanti, quei  tanti altri contaminati lungo il percorso: da un intento di bene  ad un  malevolo dire; quello originario, turbato e deformato lungo il canale di flusso forse troppo angusto o intriso di negatività, al punto che si intendeva del bene ma pur senza volerlo si è procurato del male! Ma poi addirittura quegli altri ancora colti al fondo di un intento perverso ma ammiccanti seduttivi  dolciastri, giacché dell’uomo è anche, purtroppo, concepire il male, e mascherandolo di bene! Psicologia precede e oltrepassa categorie morali, ma queste diventano orientamento indispensabile per recuperare senso di realtà  a fronte di quanto travalica essenziale dignità del vivere. Si è persone ancor prima che psicologi, e nel mentre ed oltre.

 Essere favorevolmente predisposti a esprimere ciò che sgorga dal cuore, ciò che la mente suggerisce,  nella consapevolezza che non è sempre ogni momento quello più opportuno per poter svelare tutto ciò che affiora nel sentire profondo. Ed altrettanto, che l’impulso a dire, quel qualcosa che affiora alla mente e alle labbra, è pur sempre sacro e vitale. E lo è sul volare alto e raffinato, sul senso del bello e del buono, della sincerità e dell’amore, ma lo sarebbe perfino in un terribile e inaudito – per assurdo – “vorrei ucciderti”, che, guardandolo in fondo, lo si potrebbe voltare in: “Quel qualcosa di te – modo d’essere o d’agire – non mi piace affatto, e vorrei che non ci fosse, vorrei farlo sparire, vorrei ucciderlo.”  E pur se si configura alla base come evidente mancanza di rispetto verso l’unicità dell’essere altrui, per quello che l’altro è ed esprime, per come si comporta e agisce, è anche l’inevitabile conseguenza  insita nelle ragioni delle  diversità reciproche: si può essere, non raramente, tanto vicini ma anche tanto diversi ; tanto può piacere dell’altro, come tanto altro di costui medesimo si può detestare! E se da un lato le diversità  percepite ravvivano ed entusiasmano un rapporto,  non di rado queste stesse possono però giungere a rappresentare un’incognita, ed essere percepite fin’anche come fattore destabilizzante di sé se non addirittura una possibile minaccia per la propria sicurezza.

 E siamo quindi a cercare le parole per dire;  per traghettare quel sentire profondo in linguaggio accessibile. Giacché il sentire profondo è sì!, impulso vitale, ma carico d’energia primordiale, istintiva, selvaggia, il più delle volte e quasi sempre. E persino un “ti amo” in quell’originario impulso può caricarsi come quel “ti vorrei mangiare”, che non di rado ci si concede fra chi si vuol bene intenso. Trasformare, quindi, quell’impulso in linguaggio accessibile all’interlocutore nel dialogo, giacché quell’impulso  espresso nella sua nudità e crudezza potrebbe ferire, benché non si adotti  arma alcuna, ma la lingua lo è già di suo.

Ma quindi: dire o frenare? ovvero, rendere esplicito_far_affiorare_manifestare o trattenere_vagliare_riflettere_aspettare?

Entrambe insieme, in equilibrio fra loro queste due tensioni: poter_dire ma dover_riflettere; doversi_esprimere ma dover_poter_saper_dire; uscire_e_tirar_fuori ma sapersi_anche_trattenere. Ma per quanto una e da quando l’altra?  È questione di esercizio, di situazioni dal vivo, di circostanze, di persone. Non esiste, di fatto, una regola una che valga per ogni dove e quando e con chi. Esiste la dote, la si raffina, questa del saper dire, del saper cogliere l’occasione per dire, del sapersi esprimere, del poterlo fare meglio, del migliorare la propria prestazione espressiva. Nella consapevolezza che anche la scelta dei tempi è parte di questa, e  che pertanto quando dire o quando tacere, nelle opportune circostanze, sono da ritenersi, al pari, entrambe, modalità espressive.

 Da considerare ulteriormente il valore del dire come ambito conosciuto di sé: da ovattata culla_casa_ a fortezza rassicurante_inespugnabile, il risuonare  conosciuto della propria voce. Quanto si ha da dire!, pur di potersi continuare ad ascoltare, taluni; e dire di tutto, senza tempo, su tanti e vari argomenti, ma prediletti alcuni e reiterati – capita – all’infinito. Lo constato con una persona cara, che un po’ più che gli argomenti m’incanta ascoltarne la voce. È tendenza anziani appollaiarsi nel nido della propria voce ad ogni utile occasione, con prevalenti – si sa – narrazioni di passato. Ma la propria voce è buon rifugio un po’ per tutti, specie in difficoltà relazionali: rassicura – e quanto! –  il proprio riconosciuto timbro e cadenza, fa sentire più sicuri. E un po’ tanti però ne approfittano, nel cercare di ritrovarsi frequentemente in questo proprio guscio, forse nell’avvertita incertezza o paura di affacciarsi in fuori per ascoltare un po’ più chi si ha vicino. Costituisce minaccia la diversità altrui, ma essa stessa può tramutarsi in prodigiosa risorsa, se a sostenere l’incontro contribuisce una favorevole comunicazione. E questo al fine di ampliare e ravvivare gli spazi di vita, sapendo quanto bisogno di ciò oggi vi sia!

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