Scrrrr…ivere

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autunno

Angosciante il momento di lasciare casa e mondo per entrare in scrittura. Incognita grande l’incontro con parte di me che emerge nell’attimo; e tutto il rielaborare, vedere se calza, quanto di entusiasmo e quanto di noia, e togliere e mettere. Volante automatico neanche per sogno; ogni parola misurata e calata ad hoc. Ma dipende anche da fasi. E questa è così, come prendere giuste misure, per un blog che si affaccia alla pubblica attenzione e che necessita di una vena in grado di vivicarsi costantemente.Alcune tracce le nutro e identifico: esperienze di lavoro psicologico, anzitutto, (non “casi clinici”); tratti di situazioni vive che aprano ad una essenziale rappresentazione interiore per potercisi collocare dentro/affianco/o_fuori, comunque significative. Regola ideale: cogliere il punto nodale del tratto considerato sorvolandolo così tanto che il protagonista, anche leggendovisi, non identificherebbe necessariamente la situazione narrata con la propria; e comunque è così ampia e generale che potrebbe appartenere anche a più d’uno e non per forza soltanto a se stessi. Altra traccia possibile: svelamento di sé, me, come flusso mentale, esperienze, storia, rappresentazioni. E sul lungo periodo è questa che scorgo come la più carica di opportunità. Miro a desacralizzare un certo ruolo professionale per il quale lo psicologo s’interessa del paziente, e tratta di casi clinici.
Il soggetto col quale lo psicologo interagisce nella relazione terapeutica è anzitutto un soggetto agente, protagonista della propria vita e delle proprie scelte. La problematica che lo affligge e per la quale perviene a consulenza e quindi a trattamento è il fondo di umanità nel quale anche lo psicologo è immerso e nel quale va colto – se vi si riesce – il fulcro per una possibile risalita ad una condizione di riequilibrio e maggiore benessere. Non è del paziente pertanto che lo psicologo s’interessa o si prende cura bensì della relazione fra sé ed il soggetto con cui sta interagendo. Ed in questa relazione i rischi di smarrirsi, di identificarsi troppo o troppo poco con la situazione di difficoltà apportata dall’utente, il non saper che dire o fare o cosa consigliare, l’assottigliarsi del respiro, un battere più forte del cuore, un tremore o un peso alla testa… un bel dire che in tale situazione lo psicologo è chiamato ad aiutare l’utente. Per quanto riuscirà ad aiutare se stesso in quegli attimi lo psicologo sarà effettivamente d’aiuto all’utente. Quindi non si dica che si sta aiutando l’altro giacché la prima ed essenziale premura del terapeuta è quella di aiutare se stesso ad uscirne incolume dalla relazione carica della difficoltà e dalle aspettative dell’utente. Quanto si riesce a restare se stessi in una relazione coinvolgente e carica di incognite, questa la pietra di misura per quanto si riesca realmente ad essere d’aiuto all’utente. Ne consegue che piuttosto che annali di casi clinici si tratterebbe piuttosto di riuscire a parlare di sé da parte dello psicologo. Di come di volta in volta affronto la difficoltà che vivo in ragione dell’incontro con il soggetto che mi è di fronte. Giacché realmente la difficoltà che l’utente apporta per un qualche verso diventa anche mia, anche se forse per un attimo; ma per poter interagire con l’utente non posso esimermi da ciò, dal sentire mia pur per un attimo la sua problematica. E cosa farei io, e cosa posso suggerire, e come mi atteggio rispetto alla sua esperienza, come reagisco, che parole posso dire, o se è meglio tacere ancora o dire qualcosa in merito o al più fare una domanda.
E il doppio da considerare – se stessi in rapporto all’utente – si riverbera nell’atto della scrittura allorquando dire di chi e quanto incontro nel mio lavoro significa riuscire anzitutto a esplicitare l’impatto provocato in se stessi da quanto si vive nel proprio lavoro.

Madre e figlio quattordicenne: lei decisa a chiedere un intervento psicologico per gravi manifestazioni di disadattamento ravvisate in lui; ma lui non accetta ipotizzando che il vero problema gli derivi dal fatto che sia la madre a compiere prevalentemente le scelte al suo posto. Escludo la possibilità di un trattamento psicologico in assenza della libera adesione del diretto interessato. Pur se sacrosanto, questo criterio, allorquando lo enuncio avverto di disconfermare la madre nel suo ruolo educativo, che si è assunto l’onere di giungere col figlio a consultazione.
Mi colgo su una soglia d’incertezza. Potrebbe la madre svolgere per sé un trattamento per una maggiore adeguatezza nel suo ruolo. Ma un considerare la madre per una possibile scelta che la potrebbe riguardare svierebbe l’attenzione dal ragazzo che si potrebbe sentire del tutto esonerato dall’essere qui ora. Una gabbia per tutti!: la madre per i comportamenti del figlio costretta a chiedere aiuto; il figlio costretto dalla madre a giungere a consultazione; io nell’imbarazzo se sostenere la scelta della madre accettando l’incarico o assecondare l’opzione del ragazzo che, in assenza di una sua libera adesione, lo esonero dal vincolo di tornare a consulenza. Posso reggere la soglia d’incertezza: realmente la madre ha ragione a chiedere aiuto. Realmente il figlio non ne può più della madre che decide per lui. Realmente da parte mia sono qui ad ascoltare le ragioni di entrambi in assenza di un’opzione per procedere. Sento compresso il mio ruolo fra le due istanze. Realizzo un atto di dimissione interiore: posso non essere necessario. Resto disponibile ma non per forza operativo. Non c’è margine di operatività fra due opzioni che si ledono vicendevolmente alla base: se c’è una non ci può essere l’altra. Eppure i due interessati coesistono: sono qui insieme, e partecipano alla stessa relazione familiare. Occorre un surplus d’ossigeno per una più adeguata funzionalità della mente in ragione della complessità del momento. È una proiezione nell’atto della scrittura che apre le porte al respiro: scriverò di quest’imbarazzo, confesserò l’inadeguatezza della mia funzione professionale che, pur se animata dalle migliori intenzioni, rimane bloccata dall’intralcio. È un’uscita d’emergenza che mi rianima questa prospettiva: realmente fra le due istanze inconciliabili di madre e figlio acquista un senso anche l’ammettere di non saper che fare. A rodere al fondo, nelle difficoltà, è l’avvertito disagio, come difficoltà ad agire per una operatività che pure si renderebbe necessaria ma che per un qualche aspetto diventi impraticabile, e che giunga a pervàdere aspetti di ulteriore vissuto per chi si trovi ad interagire in essa, quale ad esempio la funzione del respiro, che potrebbe affievolirsi o contrarsi in tale condizione. Ma il ringhio come di pantera è all’orizzonte: Scrrrr….ivere!!, dare conto di quel che accade nell’esperienza, poter mordere la realtà da un altro verso. E sbloccare così l’impasse; e il disagio che ridiventi agio_agire_azione possibile; e il respiro riacquistare quota.

6 commenti
  1. Adriano Alloisio
    Adriano Alloisio dice:

    Ottime e autentiche le intenzioni, e il tentativo di metterle in pratica.
    Un dettaglio: perchè usi, e così spesso, la parola ‘utente’? Mi fa pensare allo psicocoso come a un elettrodomestico, o a uno sportello. Capisco bene che non vuoi usare ‘paziente’. Che ne pensi di ‘cliente’? (brutto anche questo, ma forse un po’ meno).

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    • Luciano Provenzano
      Luciano Provenzano dice:

      Carissimo Adriano, trovo alquanto convincente la tua proposta, soprattutto alla luce dell’etimo di “Cliente”, dal greco KLYO, ascoltare, porgere orecchio, e per estensione “colui che si avvale dell’opera di uno in cui ripone fiducia”,

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    • Luciano Provenzano
      Luciano Provenzano dice:

      È un esercizio di consapevolezza che rende possibile quanto dici, caro Giuseppe, e sgorga anzitutto da una sicurezza interiore e da una fluidità comunicativa.

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  2. Giuseppe Fucilli
    Giuseppe Fucilli dice:

    Immagino tu abbia poi restituito questa tua lettura ai tuoi “clienti”, oltre che scriverne poteva essere un utile spunto di riflessione per loro.
    Funzioniamo più o meno così: Aiutare a rappresentarsi i problemi dopo esser riusciti a prenderne parte e comprenderli, rappresentarceli anzitutto noi.
    Grazie per la tua riflessione

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  3. Luciano Provenzano
    Luciano Provenzano dice:

    Carissimo Giuseppe, traccio spunti indicativi non dettagliati, per aprire un discorso e non definirlo come caso. Una scrittura per tutti non per specialisti.

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