

PRIMA –
“Com’è il tempo?”
“Si vedono le stelle.”
Hai portato la vita fino a noi dandoci forza per portarla ulteriormente oltre.
Per vedere il cielo ora ti affidi a noi, al mio sguardo; ed io guardo il cielo per te, o madre; e stelle ci vedo anche se questa sera sono solo nuvole.
E ti vorrei pacificata, contenta della vita vissuta: che anche gli screzi, i momenti bui o tristi, le circostanze pesanti, le persone indigeste, nella luce complessiva dell’esperienza vissuta possano essere sbaragliate dalla gioia di cinque figli, tutti pronti a starti vicino, ognuno per come può, ma pronti a riconoscere il bene grande che ci hai donato e cercare di ricambiarlo al meglio, specie ora, nel bisogno, nel tuo bisogno.
* * *
Oscillazioni fra inizio e fine, fra quando tu ci cullavi, e oggi che noi ti sosteniamo nel residuo tuo movimento. Nel considerare il tuo arco temporale colgo il mio transitare. In chi è per concludere il proprio passo o vi è passato, colgo il mio passare; il senso del tempo, l’interminabile attualità di ogni attimo, che sembra, e il volo disteso di giorni mesi ed anni. Realmente si è dentro un’eternità, giacché il mistero del tempo è inafferrabile; su e attraverso esso vi transitiamo, ma l’interiore suo essere non ci è dato cogliere se non per riflessi di fede o poesia, o per l’affetto di chi caro arriva o viaggia affianco a noi, o allorquando ci lascia, e allora il tempo si apre nel suo mistero e in quell’attimo ci avvolge per cogliere il senso della sua profondità ma senza del tutto raggiungerla, ma solo una sbirciata per cogliere l’immenso ed infinito nel quale siamo immersi.
E allora, di questo poterti essere vicino, o madre, in questi frangenti del tuo approssimarti alla linea d’infinito, poterti accompagnare nel viaggio che compi, per assaporarne la dolcezza e l’amarezza a un tempo, la grande voglia di esserci, e il venire meno di ogni forza, di questo poterti essere vicino nel tuo perlustrare il percorso che si apre verso un conosciuto ignoto che avverti in te ma a cui non vuoi affidarti. Io ti ringrazio o madre e tanto vorrei invece che con gioia tu ti affidassi giacché, son certo, il dolore sarebbe più lieve.
* * *
Non posso neppure starle troppo vicino in ore di notte, che se mi scopre, mi rimprovera che io non stia a dormire.
Allora la guardo di sfuggita e se mi fermo resto in piedi quasi che mi trovi di passaggio se si gira ad aprire gli occhi.
È un dono del cielo questo lento fra noi accomiatarci. A noi dispiace per lei, che soffre e se ne va; ma tanto a lei dispiace per noi, che ci lascia nell’andarsene. Sa, sente che per noi non sarà come oggi o ieri, sopraggiungerà una nuova età, quando di lei diremo al passato e soprattutto toccherà a noi un po’ più di oggi sentirci gli apripista del domani ché lei, ad oggi, pur con età e acciacchi è presenza avanti a noi, e noi le siamo dietro.
* * *
Aiuta la mia mamma, Signore, aiuta noi ad aiutarla, a starle vicino, ad accompagnarla in questi giorni e ore.
Quanto di tempo che ritorna nello stare a lei vicino, persino quando ci ha tenuti tutti nel suo pancino, e lei sorride e annuisce.
Quanto tempo che torna in questi giorni e ore: quello che fummo, siamo stati e siamo, da bambini ad oggi; e lei che si accomiata dalla casa, la sua casa, lascia più spazio a noi per riviverla intensamente come un tempo.
La guardo che sonnecchia e il volto sembra diventare un altro: più smagrita e pallida e quell’affanno e tosse che non le da tregua!
* * *
Fa o Signore che non sia arbitro del mio pensiero rispetto a questa situazione che vive mia madre.
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Vengo a guardarti o madre mentre dormi o sonnecchi, e m’immagino te quando venivi a guardare me nella culla. Contento io di vederti così placata e arresa, in vita, con la tua storia fra le mani e sulle spalle e nel cuore e viva nella mente. Vivissima che non ti sfugge persona o circostanza, sequenza di eventi, tutto come ieri serbi, ne parli, mente vigile e attenta. La mente non segue il destino del tuo corpo: ad ogni risveglio il tuo animo è desto e pronto a riafferrare ogni contatto di storie e storia; mentre il corpo debilitato, grave, se regge un attimo si dubita del successivo: questa tosse ossessiva che speri ripulisca le ossa ma che sembra il ruggito di una belva che ti divora dentro.
Come mai non arriva l’ora in queste condizioni? Eppure si avvicina a falcate grandi, ma non la si può pronunciare quell’ora, se non nella preghiera: “Soccorrici nell’ora della nostra morte”; ma che sia ormai alla porte, prossima ormai, non lo si può dire: si parli di tutto ma non si dica di ora che avanza, di epilogo che giunge, del capolino dell’ora fatale. E sarebbe la più bella cosa da dire, che sta per arrivare, per accoglierla e viverla al meglio, intensamente; ed invece si usa far finta di niente, evitare di nominarla; è tabù, come per qualcosa di segreto che però san tutti e segreto non è.
Cosa rimane da dirsi o da fare?
Accudimento e vicinanza per quanto sia possibile
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Chissà, o mamma, se quest’anno i fritti di natale li farai con noi o con gli angioletti in cielo.
Giorno per giorno le forze ti vengono meno. Andavi ancora da sola in bagno fino a pochi giorni fa, ora ci chiami e hai bisogno d’aiuto ogni volta. Vengono meno le forze; la vita sembra affievolirsi. E il pensiero oscilla fra il desiderarti sempre e ancora fra noi, giacché senza di te tutto sarebbe tutta un’altra cosa – non riusciamo neppure a immaginare come possa essere – e non provo neppure a immaginare a farlo giacché sarebbe per me indicibile-, e chiudere gli occhi per porre fine a questo dolore, questo distillato agonico che goccia a goccia sottrae vita, determinando vuoto progressivo e smarrimento per ciò che c’era fino a poco fa ed ora, svanendo, non più.
Cosa rimane da dirsi e da fare?
Accudimento e vicinanza per quanto sia possibile, perché il dialogo non si fermi e apra vita rinnovata su altri piani, più interiori, intimi, profondi, del cogliere la vita per come sia, per come volga da luce a notte, e quell’attimo che appariva eterno, che non possa non finire mai, invece torna a un punto di non essere, per come si era prima di nascere, anche se qualcosa di mezzo c’è stato, e non dev’essere stato poco, giacché fede ci dona esistenza ben oltre quel termine che appare.
E cosa dire quindi a fronte di quel mistero che ci pervade e avvolge? Si è contrariati e afflitti ed angosciati e fortemente arrabbiati per un’ingiustizia patita: da un semplice saluto che qualcuno ci ha tolto; ad un mancato riconoscimento che si sarebbe meritato; ad un’eredità che ci toccava e non è arrivata; ad una parola che avevamo sulle labbra e non ci è stato permesso dire; espropriati comunque di qualcosa che ci sarebbe dovuto appartenere. E da quel malessere, il risentimento, la rabbia. E quand’è la vita a togliere la salute, essa stessa a venir meno ? Con chi arrabbiarsi, a chi gridare sdegno? Era mia, ce l’avevo fra le mani. Perché mi viene tolta?
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Nel mio ordinario, precipito improvviso: lei! Finché le sono presso, colgo presenza e dramma. Nel distaccarmi, rituffato in cose d’ogni giorno, mi sorprendo in un attimo al suo pensiero. Per me questo di sempre tran tran, ma così diverso rispetto a quando lei era lei; ma così uguale pure nel suo precipitare attuale. Come da abissi immani, divaricato fra un io qui e lei di là; fra un tempo altro e questo, di suo dolore estremo.
* * *
Con due cuori, si dice di quando due desideri, pur generati e nutriti nell’intimo, si distanziano o addirittura divergono.
Mia mamma che soffre e così non può vivere; e mia mamma che se poco mi manca, anche di me qualcosa vien meno.
Desiderare che più non soffra e voli fra stelle nel cuore di Dio; o che se pure così patita, rimanga comunque presenza fra noi.
Questi i due cuori che battono su piani diversi. Come accordarli o farli perlomeno coesistere sull’unico piano nell’attimo di consapevolezza?
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Ti accompagniamo così o madre, nel mentre ti rendi perfettamente conto che la vita vien meno. Pienamente capace da un lato, e sempre più incapace dall’altro.
Penso mamma che te n’andrai ragionando, rievocando fatti di sempre, conversando di qualche aspetto della casa, o della tua stessa condizione.
Seguirai momento per momento le pulsazioni che per un tratto aumentano e poi, man mano, progressivamente, sempre più, inesorabilmente inizieranno a venir meno, sempre meno, e dirai quel qualcosa , come di un treno che sta per partire, ed inizia pian piano, molto lentamente a incamminarsi; ma proprio lentissimamente che col passo lo puoi anche accompagnare; percepirai ogni giro di ruota, ma che intanto progredisce, e capirai e capiremo che ci porterai sempre nel cuore, e intanto progredisce ancora e ancora e a quel punto non riesco più a raggiungerti, e sarai partita oramai, e ti guardo andare, e imparando da te, ti porteremo anche noi nel cuore.
* * *
NEL MENTRE
Sera come altre, fra dolore e afflizione. Sostenerci a vicenda la mano, Mamma, questo possiamo, e non altro, giacché terapia oltre dose non desideri, né idea d’ospedale.
La TV di ogni sera, Eredità e Pacchi, e anch’io con Te, per non discriminare fra valori e inezie, giacché valore ora è starti sempre più e più e più vicini.
Una pur superficiale pausa ti favorisce il riposo per circa un’ora e mezza. Ore 23 ripresa di Calvario. Sistemo la brandina affianco al Tuo letto. Fotografo le nostre mani intrecciate, a futura memoria, e nel rivedere la tua, ha già pallore, non notato nella penombra, al momento.
Atroci ore ultime, senza pace, con frenesia di cambiare posizione ogni momento. L’urgenza che sopravanza impetuosa scaraventa lontano il prefigurarmi per un attimo di recarmi al lavoro il mattino dopo.
Minuti e quarti d’ora li tocco uno ad uno con lo sguardo. Fino alle 3 meno cinque, quando, Mamma, mi chiedi di alzarti. Penso Tu voglia sederti al bordo del letto a sgranchirti le gambe, considerato che da qualche giorno ormai più non ti alzi. Ma, convinta, mi chiedi le ciabatte. Meravigliato, obbedisco, e per accompagnarti nella stanzetta attigua a sederti sul divanetto. Un minuto? Due? Tre non arrivano. Mi chiedi di alzarti, ed io, se desideri fare qualche passo ancora per la casa. Semplicemente dici: “A letto!”.
Nel ricoricarti siamo soliti aiutarti a risalire con la spalla più su nel letto, mentre Tu impuntando i piedi operi la spinta determinante. Ti tengo da sotto la tua spalla con una mano e con l’altra sorreggo la tua testolina. Ed è proprio mentre compi questa spinta, l’ultima, che reclini il capo: colgo l’attimo fatale; Ti chiamo, ti accarezzo testa, spalle e mani, ma mi rendo conto che sei realmente volata in cielo in quest’attimo, le 3,05 del 23 novembre 2015. E mentre ancora ti sorreggo la testa, apro il telefono, e chiamo sorelle e fratello e Marilena: “Venite”, imploro, senza altro aggiungere, e piango.
Con insistenza e fiducia ho pregato Papà di soccorrerti da quando due mesi e 20 giorni or sono s’è saputo della severità di questo male, o Mamma cara. E proprio oggi, giorno del suo compleanno, voglio credere gli sia stato concesso dall’Eterno, il regalo di riaverti nuovamente più vicina a sé.
* * *
DOPO
Di te tu dirai; quel che di me intanto dirti posso, essere fra le braccia di Dio. Sento trasfigurata mia vita in lui, e contemplandolo, perdermi al passato tutto ed essere semplicemente divenire di quella luce in lui che tutto fonde in sé, e ogni ombra dissolta. A ciò mi porta vostra mano di figli che m’avete accompagnata, e sento voi dietro me, ma voltarmi più non posso, voi potete però me guardare orientata nella luce, e con me di essa partecipare. Questo solo vi posso ormai dare; e mai più guardarvi che altrimenti in voi io resterei e perderei luce e contatto con essa, mia vita ora. Voi potete a me guardare, ed io mai più vi guarderò, giacché non posso e non piango ma se potete e riuscite nella luce mirare sguardo essa ci coglierà insieme e io più non mancherò a voi.
Non vi riconoscete in me, ché piangereste; non cercate mio sguardo che cerchereste in tal modo di trattenermi a voi, ed io non posso né voglio. Siete d’universo figli, e la strada che v’ha condotti in esso è la stessa che anche me ed ogni esserre vi conduce, ma poi svanisce, ed ognuno è responsabile per sé di quel che compie. Questo piangete, questo si piange: quella strada svanita, e l’essere giunti in se stessi e nel mondo e sentirsi perdere, come la strada svanita sotto i piedi, e sia da riconquistare un nuovo appoggio, e non si sa dove e come trovarlo. Piangete l’incertezza, la sicurezza svanita, il dover rimediare da soli un nuovo appoggio, ed era comodo quel che io per voi costituivo, una sicurezza alle spalle, la responsabile dei mali, la comunque pronta a perdonare, la maternità innata, la fonte della vita, ma poi pronti a dire anche di quei vecchi tempi ormai passati, e del nuovo vestito che che soppianta il vecchio ma domani quel nuovo è ormai vecchio. Ed io a credervi per finta che portiate il nuovo sapendo in me quanto sia già vecchio. E dite di me, di cose vecchie che narro, ma sono più nuove di quelle già vecchie che sciorinate a vista. E non scoprite così il gioco sotteso a questo mio narrare, a farvi riprendere il segno di partenza, per chiudere l’esperienza un po’ d’anni dopo ch’era cominciata e proprio lì dov’era da dov’era iniziata: questa casa, le cose d’ogni giorno, e me immersa nel dolore.
* * *
“Guardaci ancora dal cielo”, mi rattrista se lo dite. Vi ho già guardati da piccoli crescere e tenuti d’occhio. È ora che siate voi a guardare verso me, e non mi vedrete se non di spalle orientata come sono alla luce, e se voi foste avanti a me ancora più immersi nella luce non vi chiederei di guardarmi ma mi sareste d’esempio per una ulteriore immersione in essa. Solo luce ci salva, solo luce è vita, solo luce è sguardo e incontro. Chi segue la notte senza cercare luce è già morto prima di morire.
Non ho bisogno di voi né voi avete bisogno di me. Della luce ho voglia; la luce cercate; solo luce è vita.
Di fra voi la paura d’incontrarvi? Di svelarvi? Di scoprirvi?
Scorgetevi come riflessi di luce per sentirvi immersi nel flusso che da vita; sentite la vita in voi, percepitevi flussi voi stessi, non irrigiditevi in giudizi e valutazioni su come un occhio o una parola si gira; tutto sia flusso e niente si cristallizzi, che come rigidezze appesantiscono o addirittura vanificano il flusso vitale, lo uccidono. E mentre uccidete nell’altro il non gradito, che ritenete tale, qualcosa di voi in quell’attimo pure muore. E dai miei errori colgo che voi potete risparmiarveli e andare oltre: la storia ha bisogno di sviluppo e crescita. Non ripetete gli errori che mi rimproverate.
* * *
Mi vedi viva giacché già lo sono come mi hai conosciuta ancora.
Se mi cerchi mi puoi trovare; in te io vivo, in ogni gesto e verbo che ci siam scambiati.
Cosa vuoi scoprire di me che non ci siamo già detti o non conosci ancora?
Nelle mie viscere hai sondato tutto di me, e ciò che sei segue quel viaggio d’origine quando dentro me ti custodivo.
Come s’intrecci il gran dolore con la gioia profonda, so essere questo il tuo cruccio di sempre, e nel desiderio di svincolarti dall’intreccio, profondi, lo vedo, impegno tanto, per distinguerli fra loro, ma se è facile a dirsi, nella realtà, è il più arduo degli intenti umani, di come, andando in bene possa sortirsi male; e come da un connotarsi malvagio possa anche scaturirne bene.
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da Rosa Casilli 18 dic ’15
condoglianze.
A Luciano, per la sua madre,
riporto una poesia di Sant’Agostino che consola molto.
Con amicizia, Rosa Casilli.
Se conoscessi.
Se conoscessi
il mistero immenso del cielo
dove ora vivo,
questi orizzonti senza fine,
questa luce che tutto investe e penetra,
non piangeresti se mi ami!
Sono ormai assorbita nell’incanto di Dio,
nella sua sconfinata bellezza.
Le cose di un tempo
sono così piccole al confronto!
Mi è rimasto l’amore per te,
una tenerezza dilatata
che tu neppure immagini.
Vivo in una gioia purissima.
Nelle angustie del tempo
pensa a questa casa ove un giorno
saremo riuniti oltre la morte,
dissetati alla fonte inestinguibile
della gioia e dell’amore infinito.
Non piangere, se veramente mi ami!
(Sant’ Agostino)
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Mia risposta a Rosa Casilli
Grazie vivissime Rosa della Tua vicinanza. La poesia di S. Agostino coglie in pieno il sentimento che la vicinanza a mia mamma suscita: di un bisogno di liberazione che si ha nel momento del trapasso, di non restare attaccati alla vita, questa, ma di potersi immettere in una dimensione altra che, se attesa e ricercata con intento e pratica di bene, sarà luminosa.
Realmente, si va verso ciò che si sta cercando. Ma ci si può ingannare, talvolta, nel senso che, pur nell’intento il bene, di fatto si sviluppa azione non adeguata per come si potrebbe, o addirittura negativa. È importante a questo riguardo NON essere mai soli nella vita e lasciarsi guidare da relazioni che intimamente nutrano e sostengano: non basto a me stesso, ho bisogno di te, per un assiduo confronto e incontro; posso fidarmi di te; non comando me stesso; ho bisogno di un dialogo assiduo per poter io guidare in maniera ordinata la mia vita.
Il dolore che talvolta o spesso connota questa nostra esistenza, è fondamentalmente la paura di staccarsi da se stessi per potersi fidare di un altro, e che diventa anche paura di staccarsi dal momento presente al quale ci ancoriamo con ogni forza; mentre se ci lasciamo pervadere dalla fiducia verso chi ci è vicino, questo diventa nello stesso tempo fiducia verso il nuovo, verso il momento che sta per giungere, diventando capaci di proiettarci costantemente nell’attimo che sta per giungere, e questa capacità e volontà sarà un buon viatico per aprirci anche al dopo questa vita, allorquando il respiro intimo di un’esistenza intera va ad irradiarsi nella vita cosmica, per me credente incontro con Dio.
Cordialmente, Buon Natale
Luciano