Lino Angiuli, Prefazione a “sotto il ponte del tempo” di Martin Andrade
Dopo aver letto e riletto “Sotto il ponte del tempo”, non ho alcun dubbio: nella sua vita precedente, in questa o in un’altra dimensione, in questo o in diversi altri tempi, l’anima di Martin Andrade era un’anima salentina, accampata tra la Zinzulusa e una pianta di tabacco. Gironzolando fra un dolmen e un bicchiere di vino, collezionava campanili di tufodolce per piantarli in terra come ortaggi o regalarli ai passanti come amuleti; fondava la festa patronale della luna piena; frequentava la compagnia di certi poeti costretti a innamorarsi della morte per eccessivo amore della viti e cose di questo genere: cose che possono accadere soltanto se sei nato lungo la linea meridiana segnata sull’umano mappamondo dalla penna di certi sciamani della parola di nome Federico Garcia Lorca Pablo Neruda Vittorio Bodini.
In altre parole, sto dicendo che l’occhio di Martin, come quello dei poeti che vogliono ideologicamente scrivere e iscriversi nel continente cosiddetto sud, trae nutrimento innanzitutto dal pensiero magico, quella sorta di intelligenza primitiva capace di decifrare la radice quadrata della
realtà, rifondarla fantasticamente, cavare metafore da un sasso, animare la carne e incarnare l’anima a botta di corti circuiti sinestetici inventati per dare parola allo stupore, stupore alla parola. Questo è il sistema utilizzato da chi scrive nelle terre dell’assenza per cercare di dare sangue e presenza ai fantasmi della storia e della mente o per intagliare nel silenzio i visionari bassorilievi dell’esistenza.
Del resto, oltre che nell’immaginario carnoso e nella cifra barocca, la prova della salentinità biologica di Martin consiste nella lingua che, dopo venti anni di assenza (appunto) dall’Italia e dopo oltre venti anni dal suo incontro ravvicinato con il Sudditalia, gli continua a fermentare dentro come un mosto espressivo da usare per inchiostro. La lingua appresa durante l’esilio, pur se sbattuta di qua e di là, è rimasta viva a lavorare nella testa e nel cuore di Martin per diventare lingua dell’anima. Tanto è vero che, appena toccati da queste sue parole, gli amici di ieri sono subito diventati gli amici di oggi, per far luogo a un reciproco ri-conoscimento da consumare all’insegna della poesia. Amici che, sfidando le leggi del tempo più che dello spazio, hanno sùbito fatto risuonare dentro il cuore quell’inconfondibile tamtam che solo la parola poetica è in grado di attivare, e si sono dati la mano per consentire a Martin una resurrezione nell’aldiquà: i piccoli grandi miracoli compiuti da quella qualità dell’anima che usiamo chiamare poesia.
Da questo punto di vista, sbaglia di grosso chi pensa che la poesia non abbia potere alcuno sulla realtà. Enorme è, infatti, la sua potenza se ha saputo aiutare un uomo a navigare controvento e contromare (persino controcuore) mantenendo la preziosa rotta verso se stesso. E sto parlando di un uomo il quale ritiene, con lucida amarezza, che la condizione esistenziale sia “l’eterno incubo di un essere che impazzì sognandoci”, un uomo il quale ha visto di persona come la Storia sia frequentemente violentata dai carnefici di turno! E, ciononostante, sa far ricorso all’energia primordiale dell’amore per continuare a corteggiare la vita, a incantarsi di fronte alle sue non poche bellezze, tra le quali campeggia l’amore nelle sue multiformi e variopinte versioni.
Ecco, forse è questa la lezione principale che ci viene donata dai testi che il “salentino” Martin ha scolpito sulla carta come sulla carne: è l’amore il farmaco omeopatico contro il disamore; è l’amore la terra promessa per chi è chiamato a praticare l’erranza e l’errore.
E la poesia? E la poesia, in quest’ottica, non è altro che una forma dell’amore, o meglio una forma d’amore, lo strumento musicale per accompagnare il nostro canto di naviganti che rischiano il naufragio ad ogni pie’ sospinto, eppure vanno e vengono da un continente all’altro, da un tempo all’altro. Come Martin.